Dal mensile IN ASPROMONTE di Novembre 2015
Il
Sud ha fame. E durante le carestie si ruba. Nella Locride, che con
l’istituzione della Città Metropolitana diverrà provincia della provincia, si
depreda tutto: i bergamotti, l’uva di interi vigneti, gli animali.
Eppure
la fame non è una giustificazione. Anche perché alcuni “saccheggi” ricordano quelli
dei Goti.
Ed
è in quest’ambiente che, per qualche tempo, vivono molti giovani disoccupati,
prima di andare via e rinnovare l’esodo dei nostri conterranei.
Pure
Saverio Strati, che non riusciva più a pubblicare i suoi libri perché ritenuti
“superati”, è modernissimo. Le angosce di chi doveva partire ieri ed aveva “due
cuori” (uno che diceva “vai!” e l’altro “che vai
a fare?”) sono le stesse angosce di oggi.
E poi c’è la regalía di epoca
moderna. Ovvero la consuetudine di svolgere un’attività gratuitamente per un “signorotto
locale” sperando che questi in futuro si ricordi del lavoro fatto o,
semplicemente, per non inimicarselo rifiutando di “essere a disposizione”.
Succede a tanti. La differenza con il passato è quella che
non si va più nei campi a zappare, come i personaggi di Strati, ma il
significato è lo stesso.
L’autore di Sant’Agata del Bianco scrisse il racconto La regalía nel
1953 e lo dedicò “Alla memoria di Elio Vittorini”. Protagonisti: un padre con
una gamba rotta, impossibilitato a muoversi e a lavorare, ed un figlio che mal
sopportava di avere “la camicia lorda di terra e di sudore”, senza paga, per
ingraziarsi il potente “cavaliere” di turno.
Per le sue idee, il padre considerava il giovane uno
sprovveduto, un sognatore che non aveva percezione di come andava il mondo: “Tu
parli col cuore di chi non ha responsabilità. Se non vai, che puoi fare più in
paese? Che, forse puoi andare a chiedergli olive? E, se lui non ti dà le olive,
con che ti condisci le mani? E un pugno di grano dove lo semini? Che, forse hai
un pezzo di terra da zappare? Non vedi che noi non abbiamo neppure dove
scavarci la fossa? Ragioni con la testa o con i piedi?”. Ma il figlio
ribatteva: “Sentitevi onorato di andare a fare il servo (..) E’ la più grossa
fesseria, questa della regalía. Noi
dobbiamo regalare, noi che siamo poveri? E lui cosa ci regala?”.
Insomma, da sempre, dove non c’è lavoro non può esserci
libertà. Ma non solo. Ad aggravare il quadro dello sfruttamento, oggi, ci sono
i salari minimi, che non si possono contestare perché “se non ti vanno bene 400
euro al mese c’è la fila di gente che aspetta di occupare il tuo posto”. O
questo o niente, bentornato Marx!
Tuttavia, sempre in Strati, è evidente che : “Se la gente non
va a raccogliergli le olive, lui (il padrone)
non manda sua moglie a stare a culo a ponte sotto gli olivi; né va lui a dare
tre palmi con la zappa, nei campi e nelle vigne. Lui è, perché lo facciamo noi
essere”.
Ecco, i potenti, gli sfruttatori, i mafiosi “sono” perché li
facciamo noi essere. E con il sudore dei poveri saranno sempre loro i
protagonisti della storia. Quella storia che non ricorderà mai i nomi dei nostri
nonni e dei nostri padri, le loro fatiche.
E non rammenterà nemmeno le nostre “prove abortite di
esistenza”. Poiché siamo figli di una gracile mitologia contadina, di un
fatalismo che ci esorta ad accontentarci di poco. Quasi che avessimo ancora addosso
gli “spiriti della distruzione” ed i travestimenti delle antiche tragedie
greche.
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