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venerdì 30 maggio 2025

E il sindaco raccontò il piccolo mondo di Strati - di Giuseppe Smorto.

 Da "l' Altravoce - IL QUOTIDIANO" del 29.05.2025.




Non capita spesso che il sindaco di un paese si incarichi di una riconoscente restituzione di pensiero a un cittadino illustre, a lungo dimenticato. Domenico Stranieri lo ha fatto prima con l’azione politica e amministrativa, riaprendo la casa di Saverio Strati, ridando vita ai vicoli con la memoria dei suoi personaggi.

E oggi lo fa con un libro “Solo come la luna” (Rubbettino Editore), dove Sant’Agata del Bianco è la culla, l’humus, della formidabile vita di uno scrittore contadino/muratore/appassionato d’arte. La Calabria zappata da bracciante, cementata da muratore, studiata da intellettuale.

Sepolto, come Corrado Alvaro, lontano da casa, Strati ha avuto a lungo un rapporto difficile con il suo paese, e a un certo punto, anche per motivi di salute, non ci è tornato più. Rimbombava la solita domanda: «Ma alla fine, cos’ha fatto per noi?». Ha scritto, ed è la migliore risposta. E se oggi andate a Sant’Agata, lo ritroverete in mille forme: sono proprio quelle che Stranieri, da umanista e non da politico eletto dal popolo, ha voluto raccontare. Di Strati ricordiamo spesso solo le ultime puntate: il sostegno della Legge Bacchelli quando era finito in povertà, grazie a una storica campagna stampa del Quotidiano.

Meno sappiamo degli anni luminosi, dei suoi libri tradotti in tutto il mondo (33 anni con Mondadori), del suo girovagare al Nord, fra Svizzera e Toscana, mantenendo sempre una fedeltà critica a quel grumo di case sotto la grande montagna, che si affacciano sullo Jonio. Un posto che ha dato i natali a intellettuali, poeti, compositori, per motivi non spiegabili se non con quella frase di Pavese: «Un tempo qui la civiltà era greca». E Stranieri, che è uno che parla con i figli dei figli, va prima di tutto alla ricerca dei personaggi dei libri di Strati, che sono esistiti. “L’uomo in fondo al pozzo” per esempio, è Giuseppe Minnici. Memoria fenomenale, dava lezioni private gratis a chi le chiedeva, una fervida e fragile mente turbata dalla schizofrenia. Ditemi se in ogni paese non c’è un personaggio del genere. E poi Betta, “La Marchesina”. Si chiamava Vittoria Palamara, gestiva insieme al marito una bottega a Casalnuovo «e si faceva rispettare a dovere in un ambiente chiuso e maschilista come era quello di allora ». C’è naturalmente anche l’amore: ma la più bella del paese a un certo punto decide di non aspettare più il giovane Saverio, che grazie ai soldi di uno zio d’America, il fratello della madre, riesce a prendere il diploma a Catanzaro a 24 anni, e poi a frequentare l’università a Messina. Lei conserverà sempre una lettera, e si incontreranno solo quarant’anni dopo, a un funerale. Lui prende un’altra strada: allievo di Giacomo Debenedetti, si ferma a un passo dalla laurea, quando il professore-faro viene estromesso dall’insegnamento. Strati comincia allora a pubblicare al Nord, cristallizzando un mondo dove non ci sono più le nonne che raccontano le favole, con una lingua che segue l’evoluzione dei luoghi e dei personaggi. Riduce il dialetto al minimo, è ossessionato dalla scrittura. «Ha vissuto solo per quello » dice Stranieri. E ricorda un racconto del ’52 “Leo” riscritto la bellezza di sei volte. (Oggi viviamo i tempi in cui un libro sul nuovo Papa esce una settimana dopo la fumata bianca).

Ma prima del “Campiello”, degli sceneggiati, prima del matrimonio con la svizzera Hildegard, prima di quelle sei settimane in testa alla classifica dei libri con “Il selvaggio di Santa Venere (come un Cazzullo di oggi) c’è la vita di Sant’Agata fatta di stenti e sogni. I calli alle mani gliela ricordano ogni momento: la sua opera è spesso un incrocio fra vecchio e nuovo, la contrapposizione fra gli onesti e i disonesti, i blocchi politici che oggi non esistono più. Lui ha visto le baracche e i grattacieli, le matite spuntate e i primi computer. Strati è stato il figlio che ha detto al padre che non bisogna essere onorati di essere servi. Ha raccontato i democristiani e i comunisti, e quel sindacalista:se non lo avessero ucciso, il paese non si sarebbe spopolato. Certe cose si vedono meglio da lontano. “L’Aspromonte è bello come la Svizzera, solo che gli svizzeri lo sanno, i calabresi no”. “C’erano dei bambini che giocavano come Tibi e Tàscia, la differenza è che avevano le scarpe”.

Strati mantiene la memoria dei personaggi, della loro fame. Poi li ritrova adulti, belli e cresciuti. Torna spesso in paese, ma preferisce l’isolamento, frequenta casa di una delle due sorelle. Non si spiega il livore degli altri scrittori calabresi. Sentite cosa scrive di lui Fortunato Seminara: “Un piccolo borghese, nostalgico e qualunquista”. Lui si sente offeso, non si spiega questo ignorarsi a vicenda - sono gli anni di Repaci, La Cava - lui che in tempi lontani era andato da Alvaro a Caraffa del Bianco a sottoporgli alcuni racconti. Confessa di non sentirsi libero, in quel rito interminabile della visita ai parenti, appena arrivato. Di quei pranzi che ben conosciamo “dove tutti si siedono come lupi affamati”. E anche qui torna - per contrasto - la vita di prima: c’è stato un tempo in cui mangiavamo pane e olive, ed era il massimo.

Strati è stato definito come “l’ultimo neorealista sociale”, ma gli arrivano accuse per il finale di “Tibi e Tàscia”, perché alla fine Tibi si salva da solo: non lo aiuta il sindacato né il partito né la rivoluzione. Era dunque quel mondo un paradiso di ingiustizie? Un Sud crudo, non si sente l’eco di una favola. Strati non ne sente nostalgia: anche dopo la guerra, le passioni restano prigioniere dello spazio e del tempo. C’erano donne che indossavano nella bara il primo paio di scarpe. Altre “che avevano rughe così tirate da non poter sorridere” come scrisse Umberto Zanotti. Condannate ai lavori più pesanti, ad andare a prendere l’acqua alla fontana. Gelsominaie che si alzavano di notte, braccia che avevano la stessa forza dei maschi, la stessa determinazione. Cicca che si uccide per non sposare un mafioso. Donne silenziose che fanno in tempo a vedere la gioia dell’emancipazione. Mariannina che lavora al Nord e porta gli amici in paese e mostra un altro mondo fatto di amore dichiarato, “amore libero” inteso come una parolaccia, fidanzati che parlano in un altro modo. Fino alla fine, Strati è guidato da una “voce interna”, un fiume di parole, una lingua originale che Stranieri registra: insalinito, loffio, maschiate sono termini entrati in una lingua pura e celebrata, sciacquata nell’Arno, dove il dialetto è ridotto al minimo.

E c’è ancora il tempo per il diario inedito che lo scrittore ha tenuto fino all’ultimo giorno, ora nelle mani del figlio. Avrà raccontato i giorni della decadenza e delle porte che si chiudono. “Tu vali per quanto guadagni e per quanti ti vedono” scrive Strati, fotografando le leggi dell’audience e del mercato. Il libro di Stranieri è un invito a rendere pubbliche tutte quelle pagine, e a farlo nel posto dove tutto è cominciato, fra la calce da impastare e un libro di Pinocchio: di sicuro Sant’Agata ha pagato la sua colpa, Saverio Costantino Rocco Strati non è più solo.




Servizio RAI del 05.06.2025

lunedì 28 aprile 2025

SOLO COME LA LUNA: il saggio di Domenico Stranieri.

 

Il mio libro SOLO COME LA LUNA (Ed. Rubbettino) è finalmente disponibile, in libreria e online.

Si tratta di uno "scavo originale" dentro la vita e l’opera di Saverio Strati, ma anche dentro di noi: nel nostro modo di pensare, di parlare, di partire… e nel pensiero, sempre vivo, di tornare.

Difatti, attraverso lo sguardo di un grande scrittore possiamo capire chi siamo: tra luci e ombre, rabbia e amore, sentimenti profondi e storie dimenticate.

Nel testo troverete anche curiosità inedite, importanti studi critici e letterari, una certa "memoria del dolore", la voglia di cambiare le cose e scintille di poesia.

La prefazione è di Giuseppe Polimeni, professore ordinario di Linguistica italiana e Storia della lingua italiana presso l’Università degli Studi di Milano e membro dell'Accademia della Crusca.

▪︎ SOLO COME LA LUNA sarà presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino, giovedì 15 maggio, ore 19:00, Lingotto – Padiglione Oval, Spazio Calabria.



Salone del libro di Torino (15.05.2025)


SINOSSIUna ricerca rigorosa e originale che apre nuovi spunti di riflessione sulla vicenda umana e sull'opera di Saverio Strati. A cent'anni anni dalla nascita dello scrittore, Domenico Stranieri ci conduce in un particolare faccia a faccia con la letteratura in movimento di Strati. 

Il "miracolo" di questo muratore diventato scrittore è anche la perseveranza di chi non si limita a raccontare storie ma inventa un linguaggio ostinatamente fedele alla realtà dei personaggi. 

Nell'ultimo periodo, isolatosi a Scandicci, Strati sembra parlare a sé stesso nell'incipit del romanzo Tutta una vita: «Sei stanco e avanti negli anni. Sei solo come la luna, da tempo ormai». Un'esistenza, la sua, che ad un certo punto si posiziona distante dal mondo, staccata dai luoghi e dalle persone, eppure, proprio come la luna, non smette di guidare, con la sua luce continua, chi resta e chi parte.





Servizio RAI del 05.06.2025


domenica 26 maggio 2024

Vincenzo Baldissarro, l’artista che “libera” le figure dalla roccia


 Appunti sull'arte di Vincenzo Baldissarro

Sant'Agata del Bianco (RC)


Il mito di Sisifo

Si possono liberare dalla roccia: donne, uomini, sirene e miti? E creare un mondo dove ogni opera è la risposta a un "sentire"? Non è tanto una questione di precisione tecnica, ma è l'esplosione di una visione, di uno svelamento.

Ognuno di noi ha la propria sensibilità, unica e particolare, ma se pensiamo allo sguardo di un artista sappiamo che è illuminato da una potenza creativa capace di rompere il tempo e oltrepassarlo.

Vincenzo Baldissarro, artista “senza scuola” di Sant’Agata del Bianco, ha interiorizzato l'antica pazienza di osservare le cose trasformandole in un suo personale modo di percepire la materia. Ad un certo punto, in un angolo o una parete della roccia, sente o vede qualcosa. Inizia così a lavorare, a scavare, seguendo una spinta interna, eliminando tutto ciò che è superfluo, non necessario, per "liberare" una figura. 

L’arte per lui è un bisogno, un istinto, una rivelazione. È questa la forza che mi affascina di tutti i “senza scuola”, dai poeti contadini ai pittori. 

Anche lo scrittore Saverio Strati era rapito dalla fantasia, e dalla capacità di maneggiare l'essenza della forma, tipica dei tagliapietre e degli artigiani del suo paese.

Chi ha letto i libri di Strati ricorderà che nel romanzo “Il Diavolaro” (1979) don Santo, da giovane, realizzava delle sculture: 

Accende la luce e illumina il laboratorio dove negli ultimi anni si rifugiava, quando aveva allentato un poco l’attività di imprenditore edile, e vi lavorava per intiere giornate, specie d’inverno. Grossi massi di pietra scalpellata stanno là come resti di un tempo morto e sepolto. Ci sono figure che neanche ricordava più. Ah, quel cane! Un cane che sembra voglia uscire dalla pietra, liberarsi della pietra che lo contiene. Una bella testa di cane lupo con il petto proteso in avanti in uno slancio di corsa e le gambe anteriori appena abbozzate. Lo aveva fatto vedere a un ingegnere che s’intendeva d’arte. E quell’ingegnere là gli disse: ma voi, don Santo, siete un artista, altro che imprenditore. Un artista vero, autentico. Questo cane qua è molto bello. È un capolavoro. C’è in voi, don Santo, l’estro dell’artista, il fuoco sacro dell’arte. E ammirò le altre opere, e da quel giorno gli parlava con riguardo e stima anche lui, sia sul cantiere, sia al genio civile”.

Nel suo monolite in C.da Cernica, V. Baldissarro ha fatto "riemergere" le sirene dormienti (con il loro sonno “oracolare”), Sisifo ed il masso che è condannato a spingere per l'eternità, due amanti che si nascondono nell’angolo più segreto della roccia, una donna “velata”, un contadino che riposa, un cavallo, il piede di Polifemo, il mezzo busto di un guerriero greco, un suonatoreun uomo che prova a staccarsi dalla roccia (per allontanarsi da un dolore) stringendosi la nuca con le mani. Inoltre, all’interno di una piccola grotta, è raffigurato il complesso maestoso della Natività.

Vincenzo ha sempre pensato che la bellezza sia un valore non solo estetico ma soprattutto morale, e che alla fine possa aiutarci a mettere qualcosa a posto in questo strano mondo. Me lo ripete spesso, con i suoi occhi azzurri sinceri e sorridenti. E a me, ogni volta, piace pensare che, in fondo, sia vero.


DOMENICO STRANIERI


Gli amanti di V. Baldissarro


La prima opera che ha incuriosito molti visitatori è stata quella delle "Sirene dormienti":


Adesso, di Vincenzo Baldissarro si stanno occupando molti giornalisti e "viaggiatori/escursionisti".


Vincenzo Baldissarro

Per raggiungere le opere di Baldissarro cliccare > GOOGLE MAPS





ARTICOLI CORRELATI: IL MUSEO DELLE COSE PERDUTE DI ANTONIO SCARFONE


VIDEO CORRELATO: IL SEGNO DELL'ARTE A SANT'AGATA DEL BIANCO

giovedì 18 gennaio 2024

IL MODELLO SANT'AGATA (Intervista a Domenico Stranieri)

Da IL QUOTIDIANO DEL SUD del 18.01.2024


Il titolo di questo dialogo con Giuseppe Smorto (ex vice-direttore di Repubblica) è una provocazione concettuale. Sappiamo tutti, difatti, che molti paesi dell’entroterra calabrese (e non solo) stanno morendo ma il Sud non è una priorità (forse non lo è mai stato) per la politica nazionale (parliamo da sempre dei problemi della sanità, della mancanza di lavoro e della carenza di servizi e infrastrutture). Poche sono le analisi territoriali che tengono conto della straordinaria varietà dei sistemi locali, pochissime le soluzioni proposte. 

Malgrado tutto, però, c’è chi ancora prova a resistere e a indicare una via, a partire dalla tutela del paesaggio e della montagna (che potrebbe portare ad un turnover di lavoratori in aziende come Calabria Verde, con progetti ed interventi a difesa dell’ambiente e contro il rischio del dissesto idrogeologico). 

Le nuove tecnologie, inoltre, possono favorire strategie ad hoc (lo smart working, ad esempio, potrebbe svincolare alcuni lavoratori dai luoghi fisici). 

Noi abbiamo avviato una nuova narrazione dei luoghi, partendo dall’antropologia narrata dello scrittore Saverio Strati. A Sant’Agata, difatti, abbiamo raccontato il nostro mondo con la letteratura, la musica, il teatro e attraverso varie forme d’arte, come quella dei murales. 



Video Calabria -  Estratto da "Uomini e Santi" 
del 25.04.2024


Ma realizzare dei murales per seguire la moda, senza avere nulla da dire, senza studiare gli aspetti urbanistici di ogni singolo paese, è un errore. Ecco perché gli artisti di Sant’Agata del Bianco, con le loro opere, non creano soltanto bellezza, ma continuano a segnalare che persiste una presenza umana che si contrappone al vuoto di chi parte.

DOMENICO STRANIERI


Clicca sull'immagine in basso per leggere l'intervista 

 A CURA DI GIUSEPPE SMORTO







mercoledì 19 ottobre 2022

A "COLA" CON LA FAMIGLIA MANFREDI

Per tutti i cittadini di Sant’Agata del Bianco il nome della famiglia Manfredi è legato a due luoghi: il palazzo in Piazza del Popolo e l’altura di località “Cola”. 

A dire il vero entrambi i luoghi, almeno per tutto il 1800, appartenevano alla famiglia Mesiti (proprietari terrieri che si erano apparentati con l’importante casata ligure-santagatese dei Franzè). 

La villa di contrada Cola

I Mesiti diventarono in breve tempo una famiglia “illuminata”, di idee liberali (la cui biblioteca comprendeva tutte le grandi opere del ‘700, compresa l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert), e capace di eleggere frequentemente dei sindaci: Nicola Mesiti Franzè (1811-1813), Nicola Mesiti (1815-1816; 1819-1821), Antonio Mesiti Franzè (1822-1824), Nicola Mesiti (1829-1830), Antonio Mesiti (1857-1859), Giuseppe Mesiti (1862), Antonio Mesiti (1876).

Firma del sindaco Nicola Mesiti (1821)

A Sant’Agata raccontano che dopo lo sbarco di Garibaldi, a Melito di Porto Salvo, alcuni suoi ufficiali raggiunsero di notte la villa di località Cola, non facilmente controllabile e da dove si dominava tutta la costa, per incontrare il cavaliere Mesiti (alla riunione parteciparono esponenti della famiglia Patti, Signato e Surace). I garibaldini furono riforniti di armi e cibo (ovviamente all’insaputa della famiglia baronale dei Franco che, invece, era filoborbonica).


Come si passò ad identificare i luoghi della famiglia Mesiti con la famiglia Manfredi ce lo spiega Giuseppe Dieni nel libro “Dove nacque Pitagora?”: "La famiglia Mesiti (...) era la seconda dopo i Franco per i beni immobili e per denaro liquido. Si estinse con la morte di Nicola Mesiti del fu Antonio, nel 1910, senza lasciare eredi né maschi e né femmine. Tutti i beni passarono alla moglie Carolina che a sua volta li passò alla nipote Esterina, sposata Manfredi, la quale vendé tutto e si trasferì a Reggio e poi a Roma con i figli”.

Così, la casa di contrada Cola fu venduta ad uno zio dello scrittore Saverio Strati, e lo stesso Strati, proprio da quell’altura panoramica, scrisse È il nostro turno (Mondadori, 1975). Ma non solo. Il cosiddetto “Palazzo Manfredi”, in piazza, altro non è che il palazzo di Don Carmine nel romanzo “Tibi e Tàscia” (“Il palazzo di Don Carmine era enorme: grande quanto, e forse anche più grande, della chiesa, che gli stava proprio di faccia, sulla stessa piazza, e parevano due vecchi e buoni amici che chiacchierano”). 

Anche io, come tanti santagatesi, quando ero bambino ho sentito parlare della famiglia Manfredi. Una mia parente, Filomena Tallarita, che si è cresciuta a Cola (e per questo era chiamata da tutti “Filomena di Cola”), mi descriveva la figura distinta e gentile dell’avvocato Manfredi (che ogni tanto sentiva ancora al telefono). 

Ma ora devo raccontare perché ho scritto tutte queste notizie. 
Vi è, naturalmente, un motivo preciso: questa mattina, 19 ottobre 2022, ho incontrato per caso un’anziana signora che percorreva insieme ad altre due donne proprio la salita di contrada Cola. Era come se, passo dopo passo, stesse entrando in un altro mondo: il suo mondo. Si trattava di Marisa Manfredi, in compagnia della nipote Francesca Manfredi (che vive in America) e di un’altra amica. Marisa Manfredi abita a Roma, ha quasi 90 anni, e, spinta da una forza di volontà al limite del mistico, ha voluto visitare nuovamente i suoi luoghi del cuore: il palazzo Manfredi e l’altura di Cola. Da Cola si è affacciata guardando verso il mare (in fondo, da quel posto, è impossibile non ripete il gesto di girarsi verso l’orizzonte magnetico e azzurro) ed ha esclamato: "passavo tantissimo tempo a contemplare il panorama". Anche lei è nata a Sant’Agata e quando mi ha parlato di “Filomena di Cola” gli ho fatto vedere una foto che conservo nel mio smartphone. La signora Manfredi l’ha riconosciuta subito, accennando quell’illeggibile sorriso di chi, oltre alla foto, fissa pure la rapidità del tempo che passa.

Mi capita spesso, ultimamente, di incontrare persone che tornano, anche solo per qualche ora, nei luoghi dove hanno trascorso la loro infanzia, come se sentissero la necessità di riassaporare un odore, un paesaggio, una luce.
Dare una risposta a tutto ciò sarebbe complesso ma, proprio per questo, la verità è racchiusa nelle parole semplici ed esatte di Marisa Manfredi che, per sempre legata al panorama di Cola, ha voluto riprendersi, in una mattina d'ottobre, un ultimo pezzo del suo mondo.
                                                                                                                           

Marisa Manfredi


Filomena "di Cola"

Saverio Strati nella villa in contrada Cola


N.B. Da Cola, nel 1847, il viaggiatore inglese Edward LEAR realizzò 2 disegni di Sant'Agata del Bianco (Clicca qui).