Non capita spesso che il sindaco di un
paese si incarichi di una riconoscente restituzione di pensiero a un cittadino
illustre, a lungo dimenticato. Domenico Stranieri lo ha fatto prima con
l’azione politica e amministrativa, riaprendo la casa di Saverio Strati,
ridando vita ai vicoli con la memoria dei suoi personaggi.
E oggi lo fa con un libro “Solo come la luna” (Rubbettino Editore), dove Sant’Agata del Bianco è la culla, l’humus,
della formidabile vita di uno scrittore contadino/muratore/appassionato
d’arte. La Calabria zappata da bracciante, cementata da muratore, studiata da
intellettuale.
Sepolto, come Corrado Alvaro, lontano da
casa, Strati ha avuto a lungo un rapporto difficile con il suo paese, e a un
certo punto, anche per motivi di salute, non ci è tornato più. Rimbombava la
solita domanda: «Ma alla fine, cos’ha fatto per noi?». Ha scritto, ed è la
migliore risposta. E se oggi andate a Sant’Agata, lo ritroverete in mille
forme: sono proprio quelle che Stranieri, da umanista e non da politico eletto
dal popolo, ha voluto raccontare. Di Strati ricordiamo spesso solo le ultime
puntate: il sostegno della Legge Bacchelli quando era finito in povertà, grazie
a una storica campagna stampa del Quotidiano.
Meno sappiamo degli anni luminosi, dei
suoi libri tradotti in tutto il mondo (33 anni con Mondadori), del suo
girovagare al Nord, fra Svizzera e Toscana, mantenendo sempre una fedeltà
critica a quel grumo di case sotto la grande montagna, che si affacciano sullo
Jonio. Un posto che ha dato i natali a intellettuali, poeti, compositori, per
motivi non spiegabili se non con quella frase di Pavese: «Un tempo qui la
civiltà era greca». E Stranieri, che è uno che parla con i figli dei figli, va
prima di tutto alla ricerca dei personaggi dei libri di Strati, che sono
esistiti. “L’uomo in fondo al pozzo” per esempio, è Giuseppe Minnici. Memoria
fenomenale, dava lezioni private gratis a chi le chiedeva, una fervida e
fragile mente turbata dalla schizofrenia. Ditemi se in ogni paese non c’è un
personaggio del genere. E poi Betta, “La Marchesina”. Si chiamava Vittoria
Palamara, gestiva insieme al marito una bottega a Casalnuovo «e si faceva
rispettare a dovere in un ambiente chiuso e maschilista come era quello di
allora ». C’è naturalmente anche l’amore: ma la più bella del paese a un certo
punto decide di non aspettare più il giovane Saverio, che grazie ai soldi di
uno zio d’America, il fratello della madre, riesce a prendere il diploma a
Catanzaro a 24 anni, e poi a frequentare l’università a Messina. Lei conserverà
sempre una lettera, e si incontreranno solo quarant’anni dopo, a un funerale. Lui
prende un’altra strada: allievo di Giacomo Debenedetti, si ferma a un passo
dalla laurea, quando il professore-faro viene estromesso dall’insegnamento. Strati
comincia allora a pubblicare al Nord, cristallizzando un mondo dove non ci sono
più le nonne che raccontano le favole, con una lingua che segue l’evoluzione
dei luoghi e dei personaggi. Riduce il dialetto al minimo, è ossessionato dalla
scrittura. «Ha vissuto solo per quello » dice Stranieri. E ricorda un racconto
del ’52 “Leo” riscritto la bellezza di sei volte. (Oggi viviamo i tempi in cui
un libro sul nuovo Papa esce una settimana dopo la fumata bianca).
Ma prima del “Campiello”, degli
sceneggiati, prima del matrimonio con la svizzera Hildegard, prima di quelle
sei settimane in testa alla classifica dei libri con “Il selvaggio di Santa
Venere (come un Cazzullo di oggi) c’è la vita di Sant’Agata fatta di stenti e
sogni. I calli alle mani gliela ricordano ogni momento: la sua opera è spesso un
incrocio fra vecchio e nuovo, la contrapposizione fra gli onesti e i disonesti,
i blocchi politici che oggi non esistono più. Lui ha visto le baracche e i
grattacieli, le matite spuntate e i primi computer. Strati è stato il figlio
che ha detto al padre che non bisogna essere onorati di essere servi. Ha
raccontato i democristiani e i comunisti, e quel sindacalista:se non lo
avessero ucciso, il paese non si sarebbe spopolato. Certe cose si vedono meglio
da lontano. “L’Aspromonte è bello come la Svizzera, solo che gli svizzeri lo
sanno, i calabresi no”. “C’erano dei bambini che giocavano come Tibi e Tàscia,
la differenza è che avevano le scarpe”.
Strati mantiene la memoria dei personaggi,
della loro fame. Poi li ritrova adulti, belli e cresciuti. Torna spesso in
paese, ma preferisce l’isolamento, frequenta casa di una delle due sorelle. Non
si spiega il livore degli altri scrittori calabresi. Sentite cosa scrive di lui
Fortunato Seminara: “Un piccolo borghese, nostalgico e qualunquista”. Lui si
sente offeso, non si spiega questo ignorarsi a vicenda - sono gli anni di
Repaci, La Cava - lui che in tempi lontani era andato da Alvaro a Caraffa del
Bianco a sottoporgli alcuni racconti. Confessa di non sentirsi libero, in quel
rito interminabile della visita ai parenti, appena arrivato. Di quei pranzi che
ben conosciamo “dove tutti si siedono come lupi affamati”. E anche qui torna -
per contrasto - la vita di prima: c’è stato un tempo in cui mangiavamo pane e
olive, ed era il massimo.
Strati è stato definito come “l’ultimo
neorealista sociale”, ma gli arrivano accuse per il finale di “Tibi e Tàscia”,
perché alla fine Tibi si salva da solo: non lo aiuta il sindacato né il partito
né la rivoluzione. Era dunque quel mondo un paradiso di ingiustizie? Un Sud
crudo, non si sente l’eco di una favola. Strati non ne sente nostalgia: anche
dopo la guerra, le passioni restano prigioniere dello spazio e del tempo.
C’erano donne che indossavano nella bara il primo paio di scarpe. Altre “che
avevano rughe così tirate da non poter sorridere” come scrisse Umberto Zanotti.
Condannate ai lavori più pesanti, ad andare a prendere l’acqua alla fontana.
Gelsominaie che si alzavano di notte, braccia che avevano la stessa forza dei
maschi, la stessa determinazione. Cicca che si uccide per non sposare un
mafioso. Donne silenziose che fanno in tempo a vedere la gioia dell’emancipazione.
Mariannina che lavora al Nord e porta gli amici in paese e mostra un altro
mondo fatto di amore dichiarato, “amore libero” inteso come una parolaccia,
fidanzati che parlano in un altro modo. Fino alla fine, Strati è guidato da una
“voce interna”, un fiume di parole, una lingua originale che Stranieri
registra: insalinito, loffio, maschiate sono termini entrati in una
lingua pura e celebrata, sciacquata nell’Arno, dove il dialetto è ridotto al
minimo.
E c’è ancora il tempo per il diario inedito che lo scrittore ha tenuto fino all’ultimo giorno, ora nelle mani del figlio. Avrà raccontato i giorni della decadenza e delle porte che si chiudono. “Tu vali per quanto guadagni e per quanti ti vedono” scrive Strati, fotografando le leggi dell’audience e del mercato. Il libro di Stranieri è un invito a rendere pubbliche tutte quelle pagine, e a farlo nel posto dove tutto è cominciato, fra la calce da impastare e un libro di Pinocchio: di sicuro Sant’Agata ha pagato la sua colpa, Saverio Costantino Rocco Strati non è più solo.