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giovedì 18 gennaio 2024

IL MODELLO SANT'AGATA (Intervista a Domenico Stranieri)

Da IL QUOTIDIANO DEL SUD del 18.01.2024


Il titolo di questo dialogo con Giuseppe Smorto (ex vice-direttore di Repubblica) è una provocazione concettuale. Sappiamo tutti, difatti, che molti paesi dell’entroterra calabrese (e non solo) stanno morendo ma il Sud non è una priorità (forse non lo è mai stato) per la politica nazionale (parliamo da sempre dei problemi della sanità, della mancanza di lavoro e della carenza di servizi e infrastrutture). Poche sono le analisi territoriali che tengono conto della straordinaria varietà dei sistemi locali, pochissime le soluzioni proposte. 

Malgrado tutto, però, c’è chi ancora prova a resistere e a indicare una via, a partire dalla tutela del paesaggio e della montagna (che potrebbe portare ad un turnover di lavoratori in aziende come Calabria Verde, con progetti ed interventi a difesa dell’ambiente e contro il rischio del dissesto idrogeologico). 

Le nuove tecnologie, inoltre, possono favorire strategie ad hoc (lo smart working, ad esempio, potrebbe svincolare alcuni lavoratori dai luoghi fisici). 

Noi abbiamo avviato una nuova narrazione dei luoghi, partendo dall’antropologia narrata dello scrittore Saverio Strati. A Sant’Agata, difatti, abbiamo raccontato il nostro mondo con la letteratura, la musica, il teatro e attraverso varie forme d’arte, come quella dei murales. 

Ma realizzare dei murales per seguire la moda, senza avere nulla da dire, senza studiare gli aspetti urbanistici di ogni singolo paese, è un errore. Ecco perché gli artisti di Sant’Agata del Bianco, con le loro opere, non creano soltanto bellezza, ma continuano a segnalare che persiste una presenza umana che si contrappone al vuoto di chi parte.

DOMENICO STRANIERI


Clicca sull'immagine in basso per leggere l'intervista 

 A CURA DI GIUSEPPE SMORTO








mercoledì 19 ottobre 2022

A "COLA" CON LA FAMIGLIA MANFREDI

Per tutti i cittadini di Sant’Agata del Bianco il nome della famiglia Manfredi è legato a due luoghi: il palazzo in Piazza del Popolo e l’altura di località “Cola”. 

A dire il vero entrambi i luoghi, almeno per tutto il 1800, appartenevano alla famiglia Mesiti (proprietari terrieri che si erano apparentati con l’importante casata ligure-santagatese dei Franzè). 

La villa di contrada Cola

I Mesiti diventarono in breve tempo una famiglia “illuminata”, di idee liberali (la cui biblioteca comprendeva tutte le grandi opere del ‘700, compresa l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert), e capace di eleggere frequentemente dei sindaci: Nicola Mesiti Franzè (1811-1813), Nicola Mesiti (1815-1816; 1819-1821), Antonio Mesiti Franzè (1822-1824), Nicola Mesiti (1829-1830), Antonio Mesiti (1857-1859), Giuseppe Mesiti (1862), Antonio Mesiti (1876).

Firma del sindaco Nicola Mesiti (1821)

A Sant’Agata raccontano che dopo lo sbarco di Garibaldi, a Melito di Porto Salvo, alcuni suoi ufficiali raggiunsero di notte la villa di località Cola, non facilmente controllabile e da dove si dominava tutta la costa, per incontrare il cavaliere Mesiti (alla riunione parteciparono esponenti della famiglia Patti, Signato e Surace). I garibaldini furono riforniti di armi e cibo (ovviamente all’insaputa della famiglia baronale dei Franco che, invece, era filoborbonica).


Come si passò ad identificare i luoghi della famiglia Mesiti con la famiglia Manfredi ce lo spiega Giuseppe Dieni nel libro “Dove nacque Pitagora?”: "La famiglia Mesiti (...) era la seconda dopo i Franco per i beni immobili e per denaro liquido. Si estinse con la morte di Nicola Mesiti del fu Antonio, nel 1910, senza lasciare eredi né maschi e né femmine. Tutti i beni passarono alla moglie Carolina che a sua volta li passò alla nipote Esterina, sposata Manfredi la quale vendé tutto e si trasferì a Reggio e poi a Roma con i figli”.

Così, la casa di contrada Cola fu venduta ad uno zio dello scrittore Saverio Strati, e lo stesso Strati, proprio da quell’altura panoramica, scrisse “Il Selvaggio di Santa Venere”. Ma non solo. Il cosiddetto “Palazzo Manfredi”, in piazza, altro non è che il palazzo di Don Carmine nel romanzo “Tibi e Tàscia” (“Il palazzo di Don Carmine era enorme: grande quanto, e forse anche più grande, della chiesa, che gli stava proprio di faccia, sulla stessa piazza, e parevano due vecchi e buoni amici che chiacchierano”). 

Anche io, come tanti santagatesi, quando ero bambino ho sentito parlare della famiglia Manfredi. Una mia parente, Filomena Tallarita, che si è cresciuta a Cola (e per questo era chiamata da tutti “Filomena di Cola”), mi descriveva la figura distinta e gentile dell’avvocato Manfredi (che ogni tanto sentiva ancora al telefono). 

Ma ora devo raccontare perché ho scritto tutte queste notizie. 
Vi è, naturalmente, un motivo preciso: questa mattina, 19 ottobre 2022, ho incontrato per caso un’anziana signora che percorreva insieme ad altre due donne proprio la salita di contrada Cola. Era come se, passo dopo passo, stesse entrando in un altro mondo: il suo mondo. Si trattava di Marisa Manfredi, in compagnia della nipote Francesca Manfredi (che vive in America) e di un’altra amica. Marisa Manfredi abita a Roma, ha quasi 90 anni, e, spinta da una forza di volontà al limite del mistico, ha voluto visitare nuovamente i suoi luoghi del cuore: il palazzo Manfredi e l’altura di Cola. Da Cola si è affacciata guardando verso il mare (in fondo, da quel posto, è impossibile non ripete il gesto di girarsi verso l’orizzonte magnetico e azzurro) ed ha esclamato: "passavo tantissimo tempo a contemplare il panorama". Anche lei è nata a Sant’Agata e quando mi ha parlato di “Filomena di Cola” gli ho fatto vedere una foto che conservo nel mio smartphone. La signora Manfredi l’ha riconosciuta subito, accennando quell’illeggibile sorriso di chi, oltre alla foto, fissa pure la rapidità del tempo che passa.

Mi capita spesso, ultimamente, di incontrare persone che tornano, anche solo per qualche ora, nei luoghi dove hanno trascorso la loro infanzia, come se sentissero la necessità di riassaporare un odore, un paesaggio, una luce.
Dare una risposta a tutto ciò sarebbe complesso ma, proprio per questo, la verità è racchiusa nelle parole semplici ed esatte di Marisa Manfredi che, per sempre legata al panorama di Cola, ha voluto riprendersi, in una mattina d'ottobre, un ultimo pezzo del suo mondo.
                                                                                                                           

Marisa Manfredi


Filomena "di Cola"

Saverio Strati nella villa in contrada Cola


N.B. Da Cola, nel 1847, il viaggiatore inglese Edward LEAR realizzò 2 disegni di Sant'Agata del Bianco (Clicca qui).

lunedì 9 maggio 2022

IL "RITORNO" DI SALVATORE BARBAGALLO

 

Il 20 aprile del 2022 un uomo chiude una busta con dentro dei “pezzi” della sua vita e la spedisce al Comune di Sant’Agata del Bianco (RC). Arriva a destinazione dopo alcuni giorni. Nella stanza dell’area amministrativa nessuno la apre. Appena entro in Comune mi consegnano la busta. La prendo tra le mani distrattamente, faccio una battuta stupida: “non è che si tratta di un pacco bomba?” e vado via. Salgo al secondo piano, sono da solo, leggo nome e cognome del mittente. Il cognome è tipico di Sant’Agata del Bianco, Barbagallo. Ricordo che un Barbagallo (Giuseppe, nato a Sant’Agata del Bianco nel 1932) ha scritto anche dei libri di poesia (“Canto della vendetta” e “Dolce è il canto dell’eterno amore”) e prosa ("11° Comandamento: sfuggire ai cannibali”).

Ma il Barbagallo in questione si chiama Salvatore, ed è un musicista. Nella busta, infatti, trovo vecchi dischi originali, cd, foto, articoli di vari giornali, riviste, tutte cose che riportano a stagioni passate che serrano il cuore e lo rapiscono. 



Scorgo anche una lettera: “Gentile Signor Sindaco, Le invio la mia documentazione relativa all’attività artistica nell’ambito della musica e della discografia europea. Il mio lavoro, in contemporanea con lo studio della musica e del canto, ebbe inizio nel 1961 a soli 15 anni a Milano, dove mi sono trasferito con la mia famiglia.  Sono dunque lieto di inviarle quanto in oggetto, alla luce dell’interesse che sta dimostrando per il settore della cultura nel nostro paese. Nella speranza di fare cosa gradita, qualora fosse di suo interesse, e dell’amministrazione, credo possa essere una buona idea inserire quanto inviatole nel circolo del web della cultura di Sant’Agata. Nel ringraziarla per la cortese attenzione, le porgo i miei migliori saluti”.

Quando parla di sé, Salvatore Barbagallo precisa il suo nome d'arte: “Mauro Giordani”. Ed in effetti la busta contiene un disco del 1977 dal titolo “In due” cantata, appunto, da Mauro Giordani. La canzone si trova anche su Youtube (Clicca qui) e fu presentata al Cantagiro da Ezio Radaelli e registrata su etichetta R.C.A. Ci sono, poi, altri dischi, tra cui “Mexico”, scritta sempre da Mauro Giordani ed incisa in inglese, tedesco, spagnolo e francese. In Francia, con il titolo ”28° à l’ombre” (Clicca qui), il successo è stato talmente grande che la canzone è rimasta nelle classifiche per ben 6 anni. In mezzo a tanto materiale noto pure un CD di Celentano, “La pubblica ottusità”. Lo apro e leggo che la musica della canzone “L’ultimo gigante” (che è diventata nel 1987 la sigla di Fantastico 8, su Rai 1) ha il testo di Adriano Celentano e la musica di Salvatore Barbagallo. 


Sono tante le esperienze artistiche di questo musicista nato a Sant’Agata del Bianco, in Calabria, nel 1946 ed emigrato, come tanti calabresi, nel 1959 in Lombardia. 

Dopo la collaborazione con Celentano, Salvatore Barbagallo prova un “grande vuoto interiore” (che rivela pure in alcune interviste). Decide di abbandonare lo spettacolo e compone solo per scopi umanitari. È promotore e direttore artistico dell’Associazione Syntonia, attiva nella lotta alla leucemia e alla talassemia infantili. 

Mentre sfoglio i tanti articoli che mi sono stati spediti, trovo delle vecchie foto, alcune scattate a Sant’Agata del Bianco. Sono delle immagini che possiedono l’eternità fugace del sogno, come quella in cui Salvatore è in campagna con la sua classe ed il maestro Carlo Galletta (la prima persona che lo ha esortato a cantare) o quella in cui, ormai adulto, torna per un giorno in paese per salutare l’amico Carlo Rossi (colui che d’estate portava la luce del cinema a Sant’Agata).

Guardando quei volti, ho pensato che, ovunque ci troviamo, andremo sempre a cercare in un angolo dell’anima il mistero delle nostre origini, i vividi colori della nostra terra. Forse perchè non riusciremo mai a fuggire da certi paesaggi dove la memoria ci rimanda sempre, senza chiederci il permesso. Per questo Salvatore Barbagallo ha sentito l’urgenza di un “ritorno”, per raccontarsi  attraverso i suoi dischi e la sua storia. La busta che era arrivata in Comune e che, all'inizio, avevo afferrato senza troppa attenzione, conteneva un mondo ed io, senza sospettarlo, avevo un compito da assolvere: quello di scrivere di un uomo generosamente impegnato a dare un senso alla sua arte, con un’intelligenza indipendente, a viso aperto, che, da tempo, sente il bisogno di regalare ai bambini più deboli una speranza, una musica che allenta il dolore. 

DOMENICO STRANIERI


Foto di Salvatore Barbagallo scattata da Carlo Rossi

La classe di Salvatore Barbagallo (lui è il ragazzo 
appoggiato all'albero con la cartella in mano)

Salvatore Barbagallo a 14 anni


Salvatore Barbagallo (il primo a sinistra con la maglietta bianca)
a Sant'Agata davanti la casa di Carlo Rossi


Salvatore Barbagallo con Alberto Lupo al Cantagiro del 1977

Salvatore Barbagallo e Little Tony (1977)



Salvatore Barbagallo oggi


domenica 28 novembre 2021

LA LETTERA DEL PROF. CARLO GALLETTA

 Il mio ricordo, a 103 anni dalla sua nascita (28 novembre 1918)

A fine luglio 2009, a casa dei miei genitori, arrivò una lettera, in una busta gialla. Era scritta a mano, come si faceva un tempo, prima della cosiddetta svolta tecnologica, quando ognuno ci metteva un pezzettino di anima nella propria grafia. Dopo i saluti, c’era la firma: “Carlo Galletta”.



Ma perché il professore Galletta, che proprio oggi, 28 novembre 2021, avrebbe compiuto 103 anni (è nato nel 1918 e morto nel 2017) aveva inviato una lettera a mio padre?

Il 26 luglio 2009, il settimanale La Riviera aveva pubblicato un mio articolo dal titolo: “Giambattista Scarfone, detenuto di Sant’Agata del Bianco, vince il Trevi noir”.

Il prof. Galletta, non conoscendomi, fece un’azione apparentemente naturale ma che mi colse di sorpresa. A quanti di noi, difatti, dopo aver letto un bel pezzo, è venuto in mente di prendere carta e penna e scrivere una lettera? Il professore, senza saperlo, mi fece sentire la chiara percezione di una “civiltà” (la sua) diversa e lontana rispetto a quella che stiamo vivendo. Ovviamente, per fare tutto ciò non basta il pensiero, bisogna essere dotati di una vera e propria “eleganza del gesto”.

Una lettera ha un suo fascino antico, ed il giallo quasi abbagliante della busta e le parole scritte mi avevano dato la più pura delle gioie.

Andai a ringraziarlo a casa sua, dove se ne stava sempre seduto a leggere qualcosa, e da allora il prof. Galletta, con la sua mente lucida, i suoi modi cortesi, la sua cultura, mi aiutò a scrivere altri articoli. Mi parlò, ad esempio, della straordinaria figura del dott. Fenyves e, dopo qualche tempo, proprio insieme a lui, incontrammo le nipoti del medico soprannominato “l’ungherese”. 

Il prof. Galletta con le nipoti del dott. Fenyves


Il prof. Galletta era una fonte inesauribile di notizie ed è stato anche un apprezzato amministratore.

A pag. 320 del libro “Dove nacque Pitagora?”, così lo descrive l’autore Giuseppe Dieni: “Dopo Marrapodi, fu sindaco di Sant’Agata l’insegnante Carlo Galletta, figlio di fabbro ferraio, … e con lui si insediò nuovamente l’amministrazione socialcomunista che realizzò quanto di più vistoso oggi si nota in questo Comune: scuole, Palazzo Municipale ecc..”. Dal 1993 al 1996, Carlo Galletta è stato anche sindaco di Caraffa del Bianco.

Ma il mio ultimo ricordo di lui è legato ad un’opera di Domenico Bonfà, in arte Fàbon, pittore nato a Sant’Agata del Bianco nel 1912. Dovevamo allestire una mostra, nel Palazzo Comunale, il 5 febbraio 2017. Qualche anno prima, il professore mi aveva fatto vedere un dipinto realizzato da Fàbon in Libia, negli anni ‘40, prima di una battaglia. “Se non ci sarò più, se morirò combattendo, ti resterà questo ricordo di me” disse Fàbon al giovane soldato Carlo Galletta. Era un’opera realizzata velocemente, forse con la paura nel cuore, che il professore custodiva con cura.

Quella mattina mi aprì la porta di casa la moglie. Lui dormiva su una poltrona, quasi vinto dalla fatica degli anni, senza energie. La moglie provava a svegliarlo. All’improvviso il professore aprì gli occhi e domandò chi fossi. Non mi aveva riconosciuto. Quando sentì il mio nome sorrise. Richiuse nuovamente le palpebre, come se avesse perso i sensi. La moglie gli disse all’orecchio, con un’amabile grazia, che ero lì per la mostra, e chiedevo gentilmente l’opera di Fàbon. Il professore riaccese lo sguardo. Sorrise nuovamente. E, come se avesse raccolto tutte le forze per adempiere ad un ultimo, importante, dovere rispose: "certo, prendi subito il quadro!"

Fu il suo modo di dirmi addio, una lezione finale di determinazione e umanità che solo chi ama gli uomini e le storie della nostra terra può regalarci.



DOMENICO STRANIERI

La lettera del prof. Galletta


L'opera di Fàbon su legno (Libia, anni '40)


VIDEO CORRELATI 
CON LE TESTIMONIANZE DEL PROF. GALLETTA:

La rivoluzione culturale dell'Arciprete Battaglia


La storia del dott. Fenyves

domenica 6 dicembre 2020

PA...E' MORTO MARADONA

Il racconto privato della magia del calcio

Tra i 12 e i 13 anni, frequentavo la scuola media a Saronno, in provincia di Varese. Era il 1990 e ancora passavano i treni a lunga percorrenza dalla stazione di Bianco e dalla Locride. Quando aspettavamo il convoglio che doveva portarci a Milano, e che appariva lunghissimo rispetto alle misure che eravamo abituati a veder sfrecciare lungo la costa, si assisteva sempre alla solita scena, coraggiosa e incosciente, di persone che si aggrappavano agli sportelli del treno in corsa per occupare una cabina prima degli altri (“gli altri” erano coloro che salivano normalmente, quando il treno si fermava).  

Il rischio assicurava un posto comodo ai propri cari. Chi era meno scaltro e meno acrobatico, invece, sostava nel corridoio per tutta la durata del viaggio. A dire il vero c’era sempre qualche uomo che faceva sedere le donne rimaste all’impiedi e, nel tragitto che sembrava interminabile, io leggevo  l’Intrepido o qualche altra rivista che oggi non esiste più.

Arrivato in Lombardia, per un ragazzo abituato a correre libero, in un paese posto su una di quelle colline del Sud Italia che si elevano davanti al mare, i pomeriggi passati al sesto piano di un anonimo condominio sembravano (e lo erano) di una noia ineguagliabile. Cercavo di inventarmi qualcosa, una formazione della Juve (avevamo, ahinoi, Oleksandr Zavarov con il numero 10) o della nazionale italiana, prefigurando le “notti magiche” che avremmo vissuto in estate.

Ad aprile del 1990, quasi per gioco, decisi di inviare una delle squadre che immaginavo proprio al settimanale Intrepido. La mia lettera fu pubblicata il 24 aprile del 1990, e sulla copertina della rivista c’era una foto di Maradona. L’articolo, che raccontava un Maradona “ritrovato” che puntava a vincere scudetto e mondiale, era a firma di Massimo Gramellini (oggi editorialista del Corriere della Sera).

L'Intrepido del 26.04.1990



Malgrado io fossi juventino, adoravo il campione del Napoli. Quando giocava rimanevo folgorato, avvertivo la trasformazione di ogni peso in leggerezza, o in grazia, come ben descrive Alessandro D’Avenia in un articolo dal titolo “Il bandito e il campione” del 30 novembre 2020: “Un corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce, che poi è la struttura stessa dell’universo...".

Per qualche decennio, dimenticai quell’Intrepido, che però conservo ancora, ma quando dovetti far cogliere esattamente a mio figlio la magia del calcio gli raccontai di Maradona. Gli feci vedere i filmati dei palleggi, i goal, gli spiegai cosa significhi giocare alla Bombonera (lo stadio del Boca Juniors) e perché Maradona scelse di non vestire la maglia del River Plate (società più ricca rispetto a quella rivale del Boca). E, infine, gli parlai dei Mondiali, della partita contro l’Inghilterra, e di cosa succedeva a Napoli quando giocava Maradona.

Mio figlio, non potendo tifare per Diego, trasferì la sua passione su Messi e l’Argentina…fino al 25 novembre 2020, giorno in cui mi ha inviato un sms: “Pa…è morto Maradona”.



Proprio lui, il bambino che, con la sua innocente disposizione del cuore, ascoltava le mie storie, e proprio a 12 anni (la mia stessa età tra il 1989/90, quando scrivevo formazioni della Juve sognando di contrastare lo strapotere del Napoli e del Milan).

Il piccolo Giuseppe Stranieri nel 2014
con la maglia dell'Argentina

Mi invase una malinconia opaca, come se con Maradona se ne andassero via tanti frammenti di passato.

Non ho mai giudicato l’uomo, soprattutto perché egli stesso sapeva di sbagliare e lo diceva pure. In fondo, nella tragedia della vita, molti grandi artisti brillano di una luce nuova, hanno un loro lato epico (specialmente quando scelgono la difesa naturale dei più deboli), e alla fine si autodistruggono.

Ha ragione Mario Sconcerti che, in uno dei suoi libri dedicati al calcio, spiega chiaramente: “Maradona non è mai stato un equivoco. Ha vissuto da eroe, solo in mezzo agli eccessi. Venale, generoso, romantico, assolutista, senza un dubbio veramente morale. Un uomo discutibile, come tutti gli eroi. Ma dovendo, per fortuna, giudicare solo il calciatore, non c’è dubbio sia stato il migliore”.

Ecco, Maradona è stato semplicemente il migliore. Tutto il resto, tra qualche anno, non interesserà più alla storia del mondo.


DOMENICO STRANIERI